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| 72 | 2005-03-06T10:22:00 | 2005-07-23T10:46:49 | Salò, i «patrioti» della crudeltà | Per la Patria contro gli Italiani In occasione dell'iter parlamentare per la legge che equiparerà i repubblichini ai combattenti per la Libertà, un bell'articolo di Giovanni De Luna, uno dei migliori storici del 900. Quote: I REPUBBLICHINI MASSACRAVANO I CIVILI ITALIANI COME SE SI SENTISSERO IN TERRA STRANIERA Salò, i «patrioti» della crudeltà Nella memoria dei reduci di Salò c'è un insistito richiamo all'Italia e alla Patria così da fare del «patriottismo» il valore fondante delle loro scelte. Ed è nel nome di questo «amor di patria» che oggi chiedono al Parlamento italiano di cambiare, - con una legge -, il loro ruolo nella storia, di passare da «nemici» e fiancheggiatori di un occupante straniero a «combattenti» legittimati e riconosciuti. Insieme alla «fedeltà all'alleato tedesco» (che però oggi viene omessa) era proprio «la difesa dell'onore degli italiani» il cardine della loro autorappresentazione 60 anni fa. Ma come tutte le autorappresentazioni anche questa finisce col vacillare se confrontata con quelli che furono i comportamenti realmente messi in pratica dalle forze armate di Salò nei venti mesi della guerra civile. Quello che colpisce, ad esempio, è la crudeltà sistematica con cui infierirono sui corpi dei partigiani e civili che uccidevano. Ci sono migliaia di fotografie che documentano una sorta di «messa in scena della morte». Ogni volta un cartello («ha colpito in armi la Decima»), un messaggio, una didascalia, «Dio stramaledica gli inglesi e chi li aspetta», così da trasformare quei corpi in altrettanti «monumenti» di una diffusa pedagogia funeraria. A Castelletto Ticino, il 10 novembre 1944, sei partigiani furono prelevati da un reparto della X Mas comandato dall'ex pilota Ungarelli. La popolazione del luogo fu obbligata ad assistere alla loro fucilazione; la gente che transitava sui battelli o sui treni fu fatta scendere. Le salme furono lasciate esposte per tutta la giornata e la notte seguente per quello che Ungarelli definiva «spettacolo punitivo»; quindi vennero sepolte dalla popolazione del luogo nel cimitero del paese, ma, per l'opposizione dei fascisti, non fu possibile racchiuderli dentro le bare. Uno dei fucilati, Barbieri, che insieme agli altri era stato catturato nel corso del rastrellamento in una baita dove si trovava ammalato, gridò all'ultimo istante: «Sparatemi sul cuore e non sul viso, perché voglio essere riconosciuto dopo morto». Ungarelli rispose sparandogli il colpo di grazia sul viso. Per i fascisti veramente l'uccisione pubblica dei nemici sembra avere un significato che prescinde quasi totalmente dagli scopi militari della guerra; le fotografie dei partigiani fucilati e impiccati, come ci ha ricordato Santo Peli, ci spalancano le porte di una vera e propria «strategia di reificazione dei corpi... in cui viene negata la stessa dignità del morto»; quei ganci di macellaio utilizzati per appendere i nemici uccisi rinviano senza mediazioni alla degradazione dell'avversario a rango di bestia. Ma non è solo questo. Una delle caratteristiche «militari» della guerra civile è quella di estendersi anche a comunità periferiche, spesso collocate in posizioni strategiche ininfluenti per la conduzione della guerra convenzionale. Così l'esibizione della morte da parte dei fascisti segue percorsi che geograficamente non hanno niente a che vedere con il «fronte» e con la guerra contro gli Alleati coinvolgendo piccoli borghi e grandi città, allargando i cerchi dell'orrore attraverso una vera e propria «imposizione a vedere» a cui sono sottoposti gli abitanti (Mirco Dondi). Nelle stragi, dovunque, al centro come alla periferia, si seguiva un copione preciso, scegliendo ogni volta punti cruciali per lasciare in mostra i morti. E i nostri viali e le nostre piazze ne uscirono sfigurate: «questa serena piazza provinciale, che era popolata per noi dai magici ricordi della fanciullezza - scriveva Piero Calamandrei - ha perduto per sempre la sua pace accogliente da quando sappiamo che vi è rimasto esposto per ventiquattro ore, tra sentinelle tedesche, un povero ragazzo innocente impiccato ad un'inferriata; e in un altro paese toscano il viale dei vecchi platani, nel quale dalla porta delle mura sfociava nei pomeriggi domenicali la folla festiva, è diventato, da quel giorno che a ogni tronco si vide penzolare uno dei cento ostaggi, un desolato cammino di cimitero… quante generazioni occorreranno per dimenticare il maleficio inflittoci da coloro che trasformarono in forche per creature innocenti i benigni alberi delle nostre campagne?». E' facile incontrare su altri fronti e in altre guerre novecentesche pubbliche esposizioni dei cadaveri lasciati appesi per ore, per giorni, agli alberi, alle forche, ai lampioni, ai balconi, immagini che assumono le cadenze quasi «di azioni sceniche di un teatro di strada». C'è da chiedersi se esiste un tratto tipico dei fascisti nella pratica di questi orrori. In questo senso Mario Isnenghi ne ha sottolineato una sorta di perversa razionalità: da un lato si trattava di assecondare il tentativo di «rescindere ogni legame tra resistenti e popolazione civile»; dall'altro di lasciare sfogare le pulsioni più profonde dei carnefici: «i cadaveri degli uccisi devono restare evidenti, visibili agli uccisori e non solo al popolo. Servono agli uccisori come monito e conferma della propria potenza». Un esempio che sembra confermare questa interpretazione è quello della fucilazione ad opera della banda fascista comandata da Mario Carità di cinque giovani rastrellati a Vinchio, nel Mugello. La scena davanti al plotone di esecuzione fu straziante: i condannati urlavano e si dimenavano ed il plotone dì esecuzione, formato da giovani reclute, era molto scosso. Il plotone si disunì al momento dello sparo (nonostante i componenti fossero stati minacciati il giorno prima, proprio da Mario Carità, il quale aveva promesso loro la stessa fine se si fossero rifiutati di sparare) e sparò malissimo. Tre dei condannati rimasero in vita urlanti per lo spavento e il dolore. Fu data una seconda scarica ma, siccome due ancora urlavano e si dimenavano, Carità diede loro il colpo di grazia. Da allora la persona di Carità divenne, per opinione pubblica, sinonimo di ferocia. Il ruolo dei vari comandanti delle bande fasciste fu certamente decisivo nell'indurre i militi a comportamenti particolarmente efferati, senza contare il loro particolare reclutamento (volontari fanatici e avventurieri). Evocando questi capi e queste bande ci imbattiamo in altri aspetti, che investono decisivi «nodi» storiografici. Il tentativo della RSI di dotarsi di una propria forza armata autonoma si era arenato in un marasmatico groviglio logistico e operativo; i tedeschi si erano affermati di fatto come l'unico potere reale presente sul territorio italiano formalmente repubblicano. Per il resto, il moltiplicarsi di formazioni armate tutte apparentemente legali (le Brigate Nere, la Guardia Nazionale Repubblicana, la X Mas, ecc...), la loro eterogeneità, la diversità dei loro comportamenti, disintegravano gli stessi concetti di ordine e legalità a cui la gente aveva sempre riferito i propri bisogni di sicurezza. Dalla frantumazione dello Stato, dalla sua forzata rinuncia ad esercitare il monopolio legale della violenza e della forza armata, fuoriuscì il magma di una violenza privata incontrollata e incontrollabile. Fu questo lo scenario politico da cui scaturì la scelta disperata ed efferata di trasferire direttamente nei corpi dei nemici uccisi l'unico fondamento della propria credibilità istituzionale e della propria autorità statuale. Se la spontaneità della folla rivoluzionaria infierisce sulle sue vittime per sancire la nascita del nuovo potere, il vecchio potere usa le sue pratiche in un disperato tentativo di protrarre la sua durata: gli impiccati devono rimanere penzolanti, i fucilati insepolti, perché alla sua autorità resta come unico fondamento la paura della morte e la violenza sui corpi nemici. C'è, inoltre, una marcata analogia con le pratiche che emergono nella «guerra ai civili» condotta dalle truppe di occupazione naziste nei vari paesi europei; non solo nella strategia «ammonitiva» in cui si inserisce l'esposizione pubblica nei corpi, ma anche in quella «vendicativa» che vede quei corpi profanati e oltraggiati nei momenti della ritirata, quando il fronte sta passando, i combattimenti raddoppiano di violenza e la sconfitta appare inevitabile. Le ultime operazioni fasciste a Firenze, ad esempio, ebbero esattamente questo carattere (si pensi al massacro di piazza Torquato Tasso, del 17 luglio '44, dove in un folle tiro al bersaglio un reparto fascista, guidato dal pluri-pregiudicato Bernasconi, aveva ucciso anziani e bambini, tra cui Ivo Poli di quattro anni). Sarebbe forte la tentazione di lasciare questa cruda elencazione delle pratiche efferate adottate dagli armati di Salò al solo orrore che può suscitare l'esibizione del «sangue dei vincitori», quasi giustapponendo crudeltà a crudeltà, violenza a violenza. Ma lo storico non può fermarsi alla compilazione di un semplice catalogo dell'orrore. Quelle violenze possono essere decifrate, così da restituirci i caratteri più profondi dell'esperienza mortuaria di Salò e rappresentare un utile promemoria rispetto alle questioni che oggi si discutono in Parlamento. Accanto all'ansia di legittimazione istituzionale, quei comportamenti suggeriscono infatti la possibilità che i fascisti si sentissero come in terra straniera, quasi si trattasse di rendere credibili uomini e istituzioni appartenenti a una potenza occupante e si dovesse combattere dando per scontata una ostilità generalizzata delle popolazioni civili. Era una «sensazione» che si concretizzava in una precisa linea politica, sostenuta senza remore anche dal ministro degli Interni della Rsi, Guido Buffarini Guidi, il quale, in un rapporto inviato ai prefetti delle province piemontesi scriveva, appunto, che «la popolazione civile nella sua più ampia maggioranza favorisce i banditi e quindi tutta può e deve pagare». Sembrava la riedizione, anche nei termini usati («ricordare che ogni cittadino può mascherare un partigiano che, seppellito il fucile e impugnata la vanga, è pronto a riprenderlo per tirare nella schiena ai nostri soldati») degli ordini impartiti ai reparti italiani in Jugoslavia. Riaffioravano scelte e comportamenti adottati sia in Etiopia, sia nella repressione dei movimenti partigiani nei Balcani e negli altri territori tenuti dalle truppe italiane prima dell'8 settembre 1943, operazioni compiute tutte al di fuori delle regole della «guerra simmetrica». Solo che in questo caso la violenza colpiva non slavi o abissini ma direttamente gli italiani. | In occasione dell’iter parlamentare per la legge che equiparerà i repubblichini ai combattenti per la Libertà, un bell’articolo di Giovanni De Luna, uno dei migliori storici del 900 | r_nazionale | article | http://www.ecn.org/antifa/article/72/Saloipatriotidellacrudelta |